Attilio, classe 1916, chiuse gli occhi per sempre cinque anni fa, nel corso del suo riposo pomeridiano. Aveva sul petto una copia de I promessi sposi, intento a memorizzare dei brani in cui protagonista era Renzo. Renzo cammina sempre, anche per questo piaceva ad Attilio. Conobbi Attilio nel 1985 al parco di Trenno mentre guidavo un gruppo di persone in una lezione di ginnastica dolce. Si avvicinò in bicicletta incuriosito da una posizione ginnica e chiese: “Cosa state facendo di bello? Raddrizzate gli alberi?”
Divenni il suo istruttore, da quel momento non ci siamo più persi. Capii che dietro quella domanda aveva organizzato la sua vita. Una sorta di interesse di fondo per le persone, per i luoghi, per le lingue, per Leonardo…
Lui, operaio all’Alfa Romeo, viveva come un ricercatore di mondo e di umanità. Per questo era amato e stimato da tutti. Diceva: “è la mia rivincita. Sono nato povero, ho potuto studiare poco e in fabbrica ho dovuto mangiare tanta polvere. Appena avevo tempo studiavo, viaggiavo, parlavo con le persone, fotografavo”. Questo il suo metodo. Al sabato o alla domenica partiva con la sua 500 blu verso una località.
Fotografava rigorosamente in bianco e nero; fermava qualche passante anziano e chiedeva: “Cosa è successo in questo paese?” Intervistava le persone che gli davano retta. Faceva una pausa in una buona trattoria e di nuovo in giro in cerca di umanità.
Al rientro trascriveva quanto appreso su dei quaderni, li corredava con le foto che aveva scattato e li riponeva nello scaffale. Contrassegnava il quaderno con una sigla che riportava su una bandierina che posizionava su un’enorme cartina affissa alla parete. Lì vidi viaggi in Albania, Germania dell’Est, Svezia, ma soprattutto nella provincia italiana. Quando mi invitò a bere un caffè a casa sua sentii la sacralità di quelle ricerche che ornavano la sua libreria. Accanto aveva una gigantografia di Sandro Pertini.
Più andavano avanti gli anni, più Attilio acquistava fascino. Lo operarono alla prostata a 88 anni. Andai a trovarlo all’ospedale di Cremona: era in piedi e mentre mangiava continuava ad andare su e giù sulle punte dei piedi. Sorrise e mi disse: “tengo in forma i polpacci, c’è ancora della strada da fare”, poi sorrise aggiungendo: “sapevo saresti venuto, volevi tenermi d’occhio”.
In treno al ritorno pensai a quel “della” strada da fare. Non aveva detto “tanta” o “altra” strada. Mi piacque la sfumatura. Aveva colto il lato non quantitativo del tempo per una vita. Aveva messo l’accento sul modo vitale con cui ci viene chiesto di camminare, piuttosto che sulla lunghezza del cammino che non possiamo determinare.
Una volta eravamo a Bagno di Romagna, avevo organizzato un viaggio per gli anziani del mio gruppo di ginnastica. Il titolo dell’itinerario era sulle tracce di San Francesco e di Piero della Francesca. C’era anche Attilio e ci misero in camera insieme. Mi disse – 90 anni compiuti – “stasera danno una festa. Vieni, c’è da ballare”. Dissi di no e lui, come se si giustificasse, rispose che doveva proprio andare perché c’erano delle signore del gruppo che ne avevano voglia ma che da sole non sarebbero uscite.
Mi addormentai. Attilio Rientrò in camera dopo la mezzanotte. Io cercavo di dormire. Lo sentii uscire dal bagno e aprire finestre e persiane. Mi disse: “Gianni, come fai a dormire con una luna così! Vieni alla finestra che leggiamo una poesia. Anzi, te ne recito una io”. Iniziò a declamare L’onda di Gabriele D’Annunzio.
Si svegliò al mattino e mi disse “che meraviglia ieri notte. Sai che ho sgridato una signora giù nella sala da pranzo? Mi ha detto ormai…alla sua età. Le ho detto che così bestemmiava Dio, e che invece di continuare a far finta di pregare, doveva vivere e godere di tutto ciò che la vita ci riservava. Ho fatto bene, vero?”
Intorno ai 95 anni, i suoi parenti di Cremona lo convinsero a trasferirsi in un alloggio protetto. A Milano, da solo, non era più sicuro stare. Una volta al telefono si lamentò del fatto che lì non conoscesse nessuno e che i pochi anziani degli appartamenti vicini fossero più morti che vivi. Non avevano voglia di far niente.
Andai a trovarlo portando con me in una gita i suoi compagni di ginnastica. Lui ci fece da cicerone nella visita dei dintorni di Cremona, sua città natale. Appena salito sul pullman, s’impossessò del microfono e iniziò a raccontare. Restammo a bocca aperta. Si era preparato benissimo, non voleva fare brutta figura. Fu una giornata memorabile. Dopo qualche mese, con un collega, andammo a trovare Attilio. Stava bene, mangiammo con lui in trattoria. Lungo il chilometro di strada che separava il posto dal suo alloggio, Attilio salutò un sacco di gente che ricambiava. Gli chiesi come facesse a conoscere tutte quelle persone.
Mi raccontò che ogni mattina faceva quella strada a piedi. “Ci metto un po’ – disse – arrivo davanti al monumento dei caduti e mi riposo. Così ho letto i nomi sulla lapide e mi sono detto chissà se i nipoti di questi caduti si ricordano di loro. Allora ho preso l’elenco telefonico e ho cominciato a chiamare. Buon giorno sono Attilio, ma lo sa che suo nonno ha fatto la guerra? Mi racconterebbe quello che sa? La vengo a trovare”.
Quando Attilio morì stava studiando a memoria le parti di Renzo. Mi aveva chiesto di organizzare delle gite a piedi seguendo gli itinerari manzoniani tratte dai Promessi sposi; in alcuni punti lui avrebbe declamato parti dell’opera.